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L’Italia in prima fila per la moda anti-sprechi

La moda è la seconda industria più inquinante al mondo, dopo quella del petrolio

26/03/2018: L’Italia in prima fila per la moda anti-sprechi

Durante la seconda International roundtable on sustainability che la Camera nazionale della moda (Cnmi) ha organizzato con Swarovski a Milano pochi giorni fa, il Presidente Carlo Capasa afferma che L’Italia – «che produce il 40 per cento della moda europea, una percentuale che sale al 70 se non si considerano le produzioni fast fashion» è scesa in campo ormai da anni nel tentativo di capire cosa fare per migliorare la situazione.

La tavola rotonda sulla sostenibilità – alla quale si sono seduti esponenti dei big player del lusso come Lvmh e Kering, ma anche Burberry – è un esempio dell’efficacia di questa “chiamata alle armi” lanciata dalla Camera della moda. «Ci siamo ispirati al modello italiano – ha ammesso Pascal Morand, presidente della Chambre de l’haute couture francese, intervenuto a Milano – perché abbiamo capito quanto fosse importante focalizzarci sul tema. Siamo solo all’inizio».

A fare la differenza nell’approccio delle istituzioni al tema della responsabilità ambientale e sociale nella moda, è la concretezza dell’azione: «Il cambio di passo – spiega Capasa – è avvenuto quando abbiamo pensato di poter cominciare a misurare cosa è sostenibile e cosa no. Nell’ultimo anno abbiamo diffuso linee guida sulla sostenibilità nel retail, sull’impiego di sostanze chimiche nella produzione e sullo smaltimento di sostanze dannose. Insomma: numeri, azioni».

All’incontro di Milano sono state presentate le “Linee guida sui requisiti eco-tossicologici per le miscele chimiche e gli smaltimenti industriali”, sviluppate in collaborazione con Arpa, Mise e ministero dell’Ambiente, oltre a uno studio, commissionato dalla Cnmi, che nega i possibili effetti cancerogeni delle ammine aromatiche rilasciate da alcuni coloranti per tessuti, una volta a contatto con il sudore umano.

La componente chimica non è l’unica a incidere sull’impatto negativo che l’industria della moda ha sull’ambiente.

Le nuove abitudini di shopping – che hanno cancellato i tradizionali ritmi della moda a favore di una logica sempre più compulsiva, alimentata dall’offerta continua e a basso costo del fast fashion – incidono in modo significativo sul livello di sostenibilità dell’industria: «Nel 2017 gli acquisti di prodotti di moda sono aumentati del 60% rispetto al 2000 – ha detto Birgit Lia Altman, associate economic affairs officer presso l’Economic commission for Europe dell’Onu –. I capi durano il 50% in meno e il 40% di essi non viene mai utilizzato».

A questo proposito, il “sigillo” di qualità e artigianalità che caratterizza il made in Italy può fare la differenza, contribuendo a promuovere il concetto di una moda che dura e vale, quindi non va sprecata: «Si parla sempre di carbon footprint – ha detto Livia Firth, fondatrice di Eco Age – per indicare l’impatto ambientale di un’impresa. Noi, al contrario, per la seconda edizione dei Green Carpet Award che si terranno il 23 settembre alla Scala, abbiamo pensato di mettere in luce la handprint, l’impronta della mano dell’artigiano».

Oggi, mentre dilaga l’interrogativo «Cambiamo i vestiti troppo spesso?» (si veda Il Sole 24 Ore del 18 marzo), i consumatori più consapevoli mettono in dubbio la formula del fast fashion, che pure è impegnato sul fronte green: H&M ha annunciato da poco i vincitori della terza edizione del Global Change Award, dando loro fondi per un milione di euro, nel complesso.

E ci sono altre strade verso la sostenibilità: una è quella dell’eliminazione della pelliccia vera, annunciata di recente anche da Versace e Furla, dopo l’orientamento fur free di Armani, Gucci e molti altri. In linea con le scelte assolutamente pionieristiche come quella di San Francisco, dove poche ore fa la vendita di prodotti in pelliccia è stata bandita dal board of supervisors della città (pena una multa da 500 dollari). «La pelliccia vera è biodegradabile e dura per generazioni a differenza della pelliccia sintetica che ha una base chimica e finisce per danneggiare l’ambiente», ha ribattuto Mark Oaten, ceo della International fur federation. Sottolineando un altro tema chiave sul fronte dell’impatto ambientale: la circolarità.

[Fonte: Il Sole 24 Ore]

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